Non chiamateci aree interne. Noi siamo Paesi!
Così esordisce il più piccolo degli attori durante la rappresentazione di Sogno di una notte… a quel paese a Colobraro, lo spettacolo a cielo aperto che si snoda lungo le vie del centro antico e che anima le estati di questa parte della Basilicata. Il paese “che non si nomina” - perché cent’anni fa circa portò sfortuna ad un celebre avvocato che alla frase “Se non dico la verità, che possa cadere questo lampadario” il lampadario cadde - ha saputo ribaltare la prospettiva. Il punto di debolezza è diventato il punto di forza, l’ironia ha vinto sulla maldicenza e oggi Colobraro è meta turistica soprattutto nei mesi estivi. E i numeri lo confermano: oltre dodicimila spettatori hanno visitato il centro del materano nel solo mese di agosto. Anche l’attenzione mediatica ha acceso i propri riflettori destando la curiosità dei turisti verso questo luogo demartiniano che esprime un’autenticità e una bellezza senza tempo.
Il monito del giovane attore ha dunque un senso. Lo spettacolo, che unisce tutta la popolazione locale, va nella direzione di fare comunità, di condividere idee e progetti, di fare cerchio intorno alla necessità di offrire una lettura più profonda di questo luogo. Al visitatore che cerca il malocchio dietro l’angolo, attento a non esserne colpito, o la masciara che gli recita l’affascina, o il monachicchio che gli fa i dispetti, si offre la possibilità di una esperienza sorprendente che utilizza i “luoghi comuni” della superstizione per far conoscere la storia di questo bellissimo pezzo della Basilicata. Si parte dal Palazzo delle Esposizioni – sede del Museo della Civiltà Contadina e della mostra fotografica realizzata dall’antropologo Ernesto De Martino - per giungere al castello medievale posto sulla parte più alta del paese da cui lo sguardo si perde lontano.
Un’esperienza straordinaria il cui racconto ha trovato anche la forma di un libro. Colobraro. Diario di comunità è una raccolta di racconti di autori vari, edita dalla casa editrice materana Edigrafema, voluto fortemente dalla Consigliera comunale con delega alla cultura e al turismo, Concetta Sarlo, nell’ambito dell'anno del turismo delle radici. In esso sono contenute le storie, le vite, le tradizioni di luoghi, uomini e donne che non hanno dimenticato il patrimonio inestimabile donatogli dalle proprie origini. Una nuova e preziosa testimonianza del valore della memoria e della trasmissione alle giovani generazioni che fa di questa pubblicazione un ponte che congiunge, attraverso le parole, passato e futuro.
E allora, tornando al tema delle geografie, definire questi paesi “aree interne” su cui elaborare una strategia politica ed economica che ne scongiuri la marginalizzazione, può apparire mortificante agli occhi di chi vi abita e di chi si spende per mantenerli vivi. È vero, mancano i servizi essenziali tali da essere definiti centrali, ma proviamo a ribaltare ancora una volta la prospettiva. E se non fossero solo spazi fisici? Se provassimo a vederli come nuovi orizzonti di apertura? Questi paesi, che si trovano nella parte meno connessa del nostro labirintico territorio, sono paesaggi interiori, punto di incontro tra intimità e trascendenza, tra memoria e simbolo, tra individuo e mistero. Non producono la ricchezza che vuole il mercato, ma custodiscono quella ricevuta dagli avi e la mettono a frutto perché sia duratura e altri ne possano godere.
È illuminante quanto scrive Ferdinando Felice Mirizzi, professore ordinario di Discipline demoetnoantropologiche dell’Università degli Studi della Basilicata, in un articolo intitolato L’antropologia dei piccoli centri pubblicato su Il Quotidiano del Sud del 21 settembre 2024, scrive: «[…] il paese (no borghi) è una “struttura di sentimento” fatto di persone, del rapporto, delle relazioni sociali che legano gli individui tra loro e con il luogo. Il paese non è un luogo. È più che un luogo fisico, un luogo ideale che si abita anche senza essere fisicamente lì.». Un rafforzativo, seppure ce ne fosse bisogno, ci viene dalla letteratura di Cesare Pavese, dal suo La luna e i falò, in cui scrive quella che è diventata una celebre dichiarazione d’amore: «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Non chiamiamo questi paesi aree interne. Perché sono fatti di carne e ossa, di anima e di cuore, di intelletto e di ingegno. Come non innamorarsi, ad esempio, di Valsinni, il paese legato alla triste vicenda di Isabella Morra e sulle cui spesse mura, a memoria imperitura, è incisa la sua parola. O della Rabatana di Tursi, dei suoi archi in pietra e dei suoi vicoli appesi, lastricati e lisi, che si inerpicano in un saliscendi lungo l’antico paese su cui risuona la voce di Albino Pierro. O come non rimanere incantati dai gioielli arbereshe, incastonati alle pendici del Pollino, con le loro chiese bizantine arricchite da icone d’oro che irradiano sull’azzurro delle volte. E Montemurro, con le sue case basse e le basole lucenti su cui riflette la luce calda della sera. La Casa delle Muse e i suoi tesori, l’arte di Maria Padula e i versi di Leonardo Sinisgalli, una vecchia edicola in piazza a raccontare la vita che scorreva sulle pagine dei giornali. E “la Farneta”, una frazione sul Pollino che oggi conta 30 abitanti e una chiesa imponente nuova di zecca. C’è il Cammino basiliano che attraversa queste terre per raggiungere la Calabria e qui la natura si fa dolce e rigogliosa. Alberi di fichi e cespugli di more offrono generosi i loro frutti e il loro sapore esplode dentro. Tracciano il percorso dei monasteri e dei luoghi di culto rurali eretti in un tempo lontano dai monaci di passaggio. Qualche pietra è ancora ferma in quello che doveva essere un muro portante. Un passato che rigurgita di vita. E che oggi è coperto dai rovi e dal silenzio interrotto solo dal ronzio delle api.
Non sono aree interne solo perché occupano una posizione geografica che li classifica in questo modo. Nelle case di quei paesi, in quelle ancora abitate d’inverno come d’estate, continuano a vivere persone che tessono le loro esistenze nella quiete e nella lentezza. Fuori dalle porte trovi ancora le ceste per essiccare i fichi o i pomodori, e appese ai balconi le inserte dei peperoni rossi. Passeggiando per le stradine, senti il televisore ad alto volume, perché è l’unica compagnia per le persone ormai anziane rimaste ad aspettare. I figli sono andati via, a cercare le grandi città “che offrono di più”. Loro, “il di più” lo hanno trovato lì dove sono nate e cresciute. Anche se svuotati, questi luoghi conservano la loro bellezza autentica, mostrano fieri la propria identità che con il passare degli anni non si è sbiadita. Al contrario. Non cercano di apparire perfetti: lasciano che il visitatore incontri i loro muri scrostati, le loro salite faticose, le case sospese sulla valle. Ed è proprio in questa autenticità segnata dal tempo che nasce il loro fascino.
Le parole sono pietre. Non chiamiamole aree interne. Sono Paesi!
Eva Bonitatibus