Intervista a Michele Scioscia e a Marica Berterame della Effenove srls
Tutto è realtà e immaginazione. Così recita lo slogan di Effenove srls, la società lucana leader nella Digital Transformation, specializzata nel campo della creazione e realizzazione di prodotti digitali interattivi in campo culturale. Un’espressione che indica il confine tra ciò che è vero e ciò che è artificiale, tra ciò che è autentico e ciò che è riflesso, tra ciò che è umano e ciò che è virtuale. È la sfida di questa era: rafforzare la veridicità delle nostre esperienze attraverso l’innovazione tecnologica. E in questo, Effenove srls è maestra.
I suoi lavori – dagli allestimenti museali al gaming, dai videomapping al cinema - mettono in evidenza il rapporto che lega la creatività ai nuovi saperi. La sua capacità di esaltare il patrimonio storico e architettonico attraverso i nuovi linguaggi è tale da permettere al visitatore di entrare nei meandri della storia e rivivere il passato con gli occhi dello stupore. Abbiamo incontrato i cofondatori della società, Michele Scioscia e Marica Berterame in occasione della visita alla rinata Villa del Prefetto a Potenza. Nella sala multimediale allestita per vivere un’esperienza immersiva del patrimonio anche botanico della Villa, è possibile fare un’escursione nella storia di quel luogo con la Virtual Reality. Si assiste da protagonista alle principali evoluzioni dello storico edificio dal 1275 ad oggi, osservando da vicino i cambiamenti prodotti nel corso dei secoli. Il viaggio è un’occasione imperdibile per conoscere il volto antico della città capoluogo, la sua vivacità e la sua funzione all’interno di un territorio più ampio.
Il tour virtuale è terminato poi con una passeggiata reale per i tornanti della Villa insieme ai due creativi di Effenove. Un’occasione preziosa per comprendere meglio il loro lavoro e la filosofia sottesa al loro progetto e rivolgergli dunque qualche domanda.
Cosa significa per voi la parola “autenticità” nell’era dei linguaggi digitali?
Per noi autenticità vuol dire rapporto fedele con la memoria storica, con i dati, ma anche con le emozioni di chi fruisce. Non basta ricostruire un edificio storico in 3D: serve che la persona che lo guarda senta vicina quella storia. È un equilibrio tra rigore scientifico e narrazione, tra realtà tangibile e resa virtuale che non sembri artefatta.
Qual è il processo che aiuta a “salvare” dall’oblio del tempo luoghi, edifici e persone e a riprodurli fedelmente in contesti virtuali?
Il processo comincia con la ricerca archivistica e storica perché senza fonti solide la tecnologia rischia di creare solo suggestioni. Poi arriva la modellazione digitale, il 3D, la ricostruzione con parametri che ci permettono di restituire forma e proporzioni reali agli spazi, alle architetture: da sempre lavoriamo con il patrimonio storico-culturale, trasformando le evidenze fisiche, spesso frammentarie, in modelli ricostruttivi tridimensionali che ridanno forma a manufatti di cui oggi restano solo tracce. Attraverso queste ricostruzioni non mostriamo solo “come era”, ma restituiamo profondità emotiva e comprensione, rendendo accessibile e vivo ciò che il tempo ha disperso.
Successivamente il passaggio all’interattività - realtà virtuale, aumentata, esperienze immersive - che permette a chi entra nel contesto digitale di percepire la dimensione spaziale, uditiva, visiva come una continuazione del reale.
Infine, il feedback: testare con utenti, raccogliere le loro reazioni, correggere imprecisioni, affinare dettagli, perché l’obiettivo non è una “bella immagine” ma un’esperienza che resti nella memoria e che trasformi il modo di “conoscere la storia”.
Come si ricostruisce, con i nuovi linguaggi, l’autenticità della storia? Potete farci qualche esempio di prodotti da voi realizzati che vanno in questa direzione?
Si ricostruisce accostando accuratezza scientifica e uso sapiente della tecnologia. L’uso di modelli storici veri, l’analisi delle fonti, la collaborazione con archeologi o storici. Per esempio, nel progetto Torre Guevara VR Experience, l’utente “torna” a Potenza del XVII secolo e vede edifici che non esistono più, ma sono ricostruiti su basi documentali. Oppure nel Museo archeologico nazionale di Venosa, dove un videomapping interattivo sul mosaico e sull’affresco di una domus romana non solo mostra come erano, ma fa percepire il passaggio del tempo, la decomposizione, l’azione degli elementi naturali, il restauro virtuale. Questi lavori non servono solo per impressionare: servono per far capire che la storia è stratificazione, degrado, ricomposizione.
C’è il rischio che i nuovi linguaggi digitali standardizzino l’espressione creativa. È un pericolo reale o un’opportunità per nuove forme di autenticità?
È un rischio solo se la tecnologia diventa fine a sé stessa: template, format già visti, esperienze che si somigliano, calate nei contesti senza un reale dialogo. Ma crediamo che, ben indirizzata, sia più un’opportunità: la tecnologia permette di sperimentare nuove ibridazioni, si adatta ai bisogni di un pubblico che chiede sempre esperienze nuove e irripetibili. Ogni progetto deve essere costruito sul contesto specifico, sul patrimonio culturale che racconta e sul tipo di pubblico che lo vivrà. In questo senso la tecnologia diventa un alleato: non appiattisce, ma apre possibilità di personalizzazione e di nuove forme espressive, rendendo ogni esperienza autentica perché pensata su misura.
Parlando più specificatamente di intelligenza artificiale, ritenete che un contenuto generato con il suo aiuto possa essere considerato solo frutto della tecnologia, mortificando l’ingegno umano?
No. Anche quando si usa l’IA, l’ingegno umano resta centrale: innanzitutto nella richiesta dei dati poi nella loro selezione, nella supervisione, nella progettazione narrativa, nel giudizio estetico, nella decisione su cosa mostrare e cosa lasciare fuori. L’IA può accelerare, proporre varianti, suggerire soluzioni, ma non può sostituire il dialogo con la storia, con il territorio, con le persone che ne fanno parte e soprattutto non può sostituire la competenza. Se la tecnologia diventa solo automazione senza direzione umana, allora sì, si perde autenticità. Ma se è guidata dall’intenzione, dalla competenza, dall’etica e dalla visione diventa un alleato capace di ampliare creatività e ingegno.
L’interesse culturale oggi si gioca anche sulla possibilità di un’esperienza interattiva. Come essere attrattivi in un contesto così dinamico e multiforme?
Essere attrattivi oggi significa connettere i contenuti culturali a esperienze che parlino non solo alla mente, ma anche all’immaginazione e ai sensi. Il visitatore non cerca più solo informazioni, ma modalità nuove per viverle, in un’epoca dominata dai media digitali dove, come diceva l’ex direttore del digitale del Metropolitan Museum of Art (MET) “noi non siamo in competizione con gli altri musei, noi siamo in competizione con Netflix e Candy Crush”.
Per questo servono esperienze moderne, capaci di adattarsi a pubblici diversi e di parlare linguaggi differenti: contenuti di qualità, coinvolgenti e rilevanti, presenza attiva sui social network e relazioni che accompagnino i pubblici online e offline. Diversificare e personalizzare diventa così la vera carta vincente per rendere ogni percorso autentico.
Qual è, a vostro parere, il lavoro tra quelli prodotti che meglio esprime il concetto di trasparenza e di fedeltà all’anima di un bene (materiale o immateriale) riprodotto con i vostri linguaggi?
Un lavoro che per noi esprime al meglio il concetto di trasparenza e di fedeltà all’anima di un bene culturale è sicuramente quello realizzato per il museo archeologico nazionale "Mario Torelli" e il Parco archeologico di Venosa (PZ). È un progetto che tiene insieme diversi livelli di comunicazione e riesce a parlare a pubblici differenti senza perdere di vista il rigore scientifico.
Abbiamo messo al centro la comunicazione del sapere scientifico, traducendolo in linguaggi accessibili: videomapping che restituiscono vita e colore all'affresco e al mosaico di una domus romana; pannelli informativi che accompagnano la visita in maniera tradizionale attraverso testi, immagini e spaccati assonometrici di ricostruzioni tridimensionali; touchscreen con modelli 3D navigabili e interattivi che permettono al visitatore di esplorare le architetture; l'applicativo Venusia Maps Experience che permette al fruitore, tramite una mappa interattiva, di orientarsi fisicamente nel parco archeologico e aprire schede di approfondimenti. L'app stessa si presta alla “personalizzazione” dell'interfaccia utente modificando dimensione del font e contrasti cromatici per rendere l’esperienza inclusiva e fruibile da un pubblico ampio e diversificato.
È un esempio concreto di come i nostri linguaggi digitali possano restituire fedeltà e trasparenza al bene culturale: nulla è inventato, tutto è basato su fonti e studi ma, al tempo stesso, l’esperienza è resa coinvolgente, moderna e diversificata.
Infine, guardando al futuro, qual è la sfida più grande per garantire esperienze autentiche e coinvolgenti in un mondo in cui “tutto è realtà e immaginazione”?
La sfida più grande è non cadere nell’effetto “bella illusione” che inganna, ovvero in esperienze spettacolari ma senza fondamenta. Serve equilibrio tra immaginazione e verità dei contenuti. Dovremo innovare continuamente - strumenti nuovi, formati nuovi, modalità di interazione nuove - ma senza mai perdere la cura delle fonti, la sensibilità per il territorio e la comunità. Allo stesso tempo, è necessario evitare la “bulimia di tecnologia”, l’uso eccessivo e fine a sé stesso degli strumenti digitali: la tecnologia ha senso solo se pensata per le specificità dei luoghi e per ciò che raccontano. La vera responsabilità è costruire esperienze che resistano al tempo, che non siano mode passeggere ma patrimoni condivisi, autentici e memorabili.
Eva Bonitatibus